Non avevo ancora finito il mio bizzarro e articolato percorso di studi quando iniziai ad occuparmi attivamente di mercati finanziari: per quasi tredici anni sono stato operatore finanziario, trattando principalmente il mercato dei derivati, segnatamente futures e opzioni su indici azionari, obbligazionari e cambi valutari, marginalmente delle materie prime. Ho effettuato ricerche finalizzate all’individuazione di bias (inefficienze) sfruttabili operativamente, analisi multifattoriali dei così detti effetti emergenti, conseguenze dirette degli effetti aggregati di scelte individuali. Sono arrivato a realizzare fino a 90 eseguiti in una singola seduta di mercato. Nel 2014 sono passato alla consulenza finanziaria, portando con me conoscenze, esperienze e capacità, in una parola le mie competenze di ricercatore e operatore finanziario.
L’operatività e la consulenza finanziaria sono due mondi differenti, passare dall’una all’altra ha richiesto inevitabilmente una nuova declinazione di quelle competenze. Ma i mercati finanziari sono governati dalle stesse regole: nessun professionista, o almeno, nessun professionista onesto intellettualmente cerca di prevedere e anticipare i mercati. Si tratta, sempre, di: 1) gestione del rischio (strategico); 2) adattamento (tattico).
La gestione del rischio, tralasciando qualsiasi considerazione sulle tecniche e sugli strumenti, viene perseguita: a) minimizzando, fino a virtualmente annullare, il rischio specifico attraverso la diversificazione; b) individuando prima e mantenendo poi la composizione in termini di asset class della posizione strutturale. L’allocazione strategica viene definita sulla base di tre parametri: tempo a disposizione, volatilità tollerata e rendimento atteso. Tempo e volatilità sono variabili indipendenti che vengono scelte analizzando le caratteristiche oggettive e soggettive dell’investitore; il valore atteso di una posizione finanziaria è la variabile dipendente, conseguenza diretta della quantità di rischio sistemico gestito. Esemplificando, un portafoglio creato per la tesoreria di una SpA, con un orizzonte temporale di 3 anni e una volatilità del 12,5% (in termini di Var2, annualizzato, con livello di confidenza del 95%) avrà una quota di azionario e un rendimento atteso inferiore ad un portafoglio strutturato sulla base di un orizzonte temporale di 15 anni e una volatilità tollerata del 22%.
In estrema sintesi e approssimazione, l’adattamento tattico implica la scelta di due azioni opposte: ribilanciare periodicamente la posizione mantenendo la composizione dell’allocazione strategica definita ex-ante; oppure forzare l’evoluzione della posizione assecondando l’andamento del mercato. Nel primo caso se l’azionario sale viene venduto riportandolo alla quota stabilita a livello strategico, mentre, per la stessa ragione, se scende viene comprato. Nel secondo caso se l’azionario scende viene venduto riducendo ulteriormente la quota in portafoglio. Le ragioni sono abbastanza ovvie. I ribilanciamenti, volti a riportare la composizione del portafoglio più o meno alle condizioni iniziali, sono finalizzati a mantenere i parametri del portafoglio all’interno di intervalli appunto prestabiliti. Questo viene effettuato in condizioni di mercato che possono essere definite “normali”, in senso statistico. Ora, senza inoltrarmi in tecnicismi inutili parlando di come la distribuzione di frequenza delle serie storiche dei prezzi non risponda ad una curva normale (ma ad una leptocurtica) e non sia stazionaria (una variazione del 10% se il prezzo è 1.000 è in valore assoluto dieci volte la stessa variazione del 10% se il prezzo è 100), possiamo affermare che una correzione nell’ordine del 15% possa avvenire sui mercati finanziari in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, ergo rientra nella normalità e, a parità di altre condizioni, si procederà con un ribilanciamento della posizione. Al contrario, se il mercato indica non una correzione, ma un’inversione della tendenza di medio-lungo periodo, allora procederemo assecondandone l’andamento (evento che negli ultimi 30 anni è avvenuto 3 volte).
Perché non si fanno previsioni, ma ci si adatta ai mercati?
Uscendo da qualsiasi ipocrisia o forma di presunzione, per tre ordini di ragioni. Innanzitutto, perché anche l’algoritmo predittivo più raffinato ed evoluto sconta un effetto “delay” (ritardo) sul recepimento delle notizie e delle informazioni rilevanti da un punto di vista finanziario. Poi, perché nel breve-medio periodo il “rumore” è maggiore del “segnale”. Infine, perché, come hanno dimostrato Heisenberg e Schrodinger, in ambito comportamentale l’osservatore stesso influenza l’oggetto osservato.
Dobbiamo aggiungere una complicazione pratica rilevante. Gli operatori finanziari, individualmente o avendo delega piena da parte dell’istituzionale per il quale operano, immettono direttamente e in autonomia gli ordini sui mercati. Non dovendo ricevere conferma per ogni ordine da ogni cliente, come invece il consulente si trova a fare, la loro velocità di esecuzione è notevolmente più alta. Nonostante questo, la possibilità di “battere i mercati”, specie se i mercati tendono all’efficienza, è estremamente ridotta. Ecco perché un portafoglio efficiente sarà composto da strumenti che replicano passivamente il mercato (come gli ETF) e strumenti attivi che cercano di batterlo (come le SICAV, dove il gestore, all’interno di un mandato definito, ha libertà e autonomia operativa).
Ripetendomi fino alla noia, le uniche alternative che un investitore si trova a dover scegliere sono:
1) Guadagnare molto, consapevolmente, in maniera non regolare nel lungo periodo
2) Perdere poco, inconsapevolmente, in maniera regolare nel lungo periodo (non investendo, per effetto dell’inflazione)
3) Perdere molto, dolorosamente, nel breve periodo (avendo la presunzione o illudendosi di avere informazioni più accurate e capacità superiori al mercato)
You choose!
Lorenzo Rindi - PQL
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